01.59

il tempo corre e noi siamo spaesati

1.59 del mattino, poi le 3.00

Succede così, ogni anno, l’ultima domenica di marzo quando, come da consuetudine c’è il famoso cambio dell’ora. Che poi non mi ricordo mai se questa sia quella legale o solare, come tutti d’altra parte. So solo che al mattino, mi sveglio e mi chiedo: che ore sono veramente? Ma i miei orologi si sono aggiornati? Il telefono? 

Apri gli occhi, fissi il vuoto e senti un po’ di smarrimento. Come quando dormi in una casa non tua e, appena sveglio, devi riconnetterti al mondo, capire se sai dove sei. Ci sentiamo spaesati… 

Tipo ciò che succede quando affrontiamo un cambiamento. Me lo ricordo esattamente come mi sentivo circa cinque anni fa, quando mia cugina ci disse che presto saremmo diventati zii. Ero felice, eccitato, non stavo nella pelle eppure non potevo fare a meno di chiedermi cosa sarebbe cambiato e, soprattutto, come. Le domeniche da nonna avremmo continuato a vederci? Ci saremmo divertiti ancora? O sarebbe diventata una di quelle mamme che dimenticano ciò che sono state prima? 

Naturalmente, storia insegna, nel caso di mia cugina tutto è rimasto uguale. Fatta eccezione che adesso, tra una chiacchiera e l’altra, mi tocca, ci tocca, nasconderci sotto un letto, correre, fare una giravolta, strisciare o fingere di essere a turno Geko, Gattoboy e compagnia bella.

Ma perché tra l’1.59 e le 3.00 abbiamo così tanta paura? Perché ci guardiamo intorno spaesati? Perché quel minuto che sembra durare ore ci spinge a credere che stiamo perdendo tutto, che le nostre certezze si sgretoleranno e che il mondo che conoscevamo non esisterà più?

Mi sono detto che forse non è tanto la paura per ciò che verrà, ma è l’ignoto a fermarci, a tenerci al palo. A spingerci a lasciare tutto immutato perché, alla fine, lo status-quo può essere brutto, avvilente, sfibrante, orribile, ma, almeno, sai in che consiste. A pensarci bene, forse è questo il nostro retaggio culturale, quello della vigliaccheria. A testimonianza di ciò la saggezza popolare che include proverbi come “Chi lascia la via vecchia per quella nuova, sa quello che lascia, ma non sa quello che trova” o il più catastrofico “Dalla padella alla brace”.

Insomma: non facciamo altro che dirci di resistere, di non cambiare perché se poi va peggio, beh, ce ne pentiremmo. Quindi non è la paura del cambiamento a condannarci. No! È la buona e vecchia paura di fallire.

Non si sbaglia. No! I bambini bravi non sbagliano, gli studenti eccellenti non commettono errori. Gli imprenditori non fanno mai buchi di bilancio e i politici non inciampano.

Ma quando mai? 

Ecco, forse, è sempre questa la storia: non solo cerchiamo la perfezione (come dicevo qui), ma, peggio ancora, non accettiamo l’idea di poter commettere errori, di poter avere una macchia sulla nostra fedina. Semplicemente non è possibile.

Ma allora perché non facciamo altro che dirci che è dagli errori che si impara? Perché siamo disposti a convivere con gli abbagli, solo quando siamo tornati a vedere tutto con estrema chiarezza? 

Probabilmente dovremmo essere semplicemente tutti un po’ più mediocri. Capire che rischiare fa bene e se sbagliamo, beh, porreremo rimedio. Tutto qui. Ci sveglieremo alle 9.30 del mattino, cercheremo di capire se gli orologi sono a posto, ci rimboccheremo le maniche e qualunque sia l’ora vera, metteremo su il caffè pronti ad affrontare la giornata.

Una risposta a “01.59”

  1. quanti orologi dopo il cambio si sono fermati a me..forse si sò incazzati per averli toccati dal loro torpore..due non mi funzionano più,pur avendo cambiato le pile,il satellitare ieri mi ha riportato allorario solare..un casino insomma,quindi la pazienza ed il cambiamento vanno di pari passo

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