Gratitudine s. f. [dal lat. tardo gratitudo –dĭnis, der. di gratus «grato, riconoscente»]. – Sentimento e disposizione d’animo che comporta affetto verso chi ci ha fatto del bene, ricordo del beneficio ricevuto e desiderio di poterlo ricambiare (è sinon. di riconoscenza, ma può indicare un sentimento più intimo e cordiale).
Mi siedo a tavola. Non sono più a capotavola già da un po’. Precisamente dal settembre 2019, quando un team di medici intervenne quasi d’urgenza su mia nonna che era praticamente destinata a una sorta di paralisi complessiva. Me lo ricordo benissimo: ero a New York, partito dilaniato dai dubbi e dal senso di colpa per aver lasciato la mia famiglia in un momento complicato, quando, al mattino, leggo sulla chat di famiglia e scopro che nonna è da operare. Forse avrebbe potuto ricominciare a muovere qualche passo.
Quelli che sono seguiti sono stati mesi duri. Mesi in cui abbiamo cominciato a vivere giorni di pendolarismo tra Agnone e l’ospedale in cui era ricoverata (a un’ora di distanza). Abbiamo aggiunto una tappa, a un certo punto: anche nonno era finito in corsia. In un altro ospedale, però.
Al ritorno, alla fine di tutto questo, quando la pandemia non era nemmeno vicina, ci siamo ritrovati per la prima volta a tavola e ho ceduto il posto a capotavola “Nord” (al “Sud” siede nonno), che avevo avuto qualche ventennio prima, non si sa nemmeno perché. Da allora, siedo alla destra di nonna, vicino a mia cugina.
Ecco. Ieri ero seduto a tavola, al mio nuovo posto. C’eravamo quasi tutti a festeggiare gli 85 anni di nonno e mi guardavo intorno. Caos, urla, come sempre. Mio nipote che parlava con mia zia. Mia nipote che passava di sedia in sedia, alla ricerca di pezzi di prosciutto da staccare dai pezzi di pizza, olive da rubacchiare, tra un “Buh” e l’altro. Perché sì, quando hai una nipote piccola lei fa buh e tu devi avere paura. Devi fingere sconcerto per vederla ridere e mostrare quei quattro dentini bianchi. Lo fai perché è bello perfino alla trentasettesima volta consecutiva.
Così, tra un buh, un passaggio di pizza, una chiacchiera e la scoperta di che una CocaCola era scaduta tipo nel 2020, mi sono messo a pensare. Al 2019, all’operazione di nonna, all’infarto di nonno. Ho pensato al 2017, al primo parto di mia cugina, alla truffa che i miei stessi nonni avevano subito. Ho pensato al 2020, ai mesi in cui li ho visti meno nella mia vita, ai mesi che non abbiamo avuto per goderci la nostra famiglia. Ho pensato a questo 2021 in cui tanto è successo a tutti noi. Anche a me. Di bello, di difficile, di brutto, di inaspettato.
Quante vite viviamo in una sola esistenza mi sono chiesto? Quante storie per un romanzo complesso? Quanti episodi di una serie TV, multi stagione?
Sono uno spettatore fedele. Guardo in sacrosanto silenzio Grey’s Anatomy. Con una dedizione tale che, quando in tv danno lo show di Shonda, mia madre mi chiede “Se ho turno in ospedale”. Ora, chi ha seguito la storia sa che Meredith (la protagonista) è, come dire, nu poc sfigata. È stata pseudo-abbandonata dal padre, che si è rifatto una famiglia, ha avuto un pessimo rapporto con la madre, che è morta giovane di Alzheimer, ha lottato per amore, si è sposata, ha rapito una bambina che poi ha adottato, è rimasta vedova, ha perso la sua sorellastra in un incidente aereo, è sopravvissuta a un’esplosione, a un attacco di un pazzo armato di pistola, a un incendio, al raptus di un paziente, alla collisione tra un volo charter e il suolo. Insomma, Meredith è ancora lì che fa la dottoressa figa. La vedova in divisa tra le corsie dell’ospedale, con tre proli al seguito, diversi amori alle spalle e s’è tipo ricomprata l’ospedale in cui lavora. Trullalereggia ancora canticchiando allegramente, come se non avessi subito nulla. Pure se ha la calamita per le tragedie. (Cioè io amico di Meredith non ci vorrei essere: finirei morto, in qualche modo!)
Ora, qual è il punto di tutto questo?
Semplice. Che ieri, tra un pezzo di pizza e l’altro, mi sono detto: certo che noi come famiglia ne abbiamo affrontate tante. Ma tante eh! Ne cito una al volo: nonna che si accappotta con la macchina, esce dal finestrino, armata di busta di fave e protesta con il 118 perché doveva tornare a casa spiegando che “Arriva il frigo nuovo!”
Quindi ne abbiamo passate e superate tante. Non quante Meredith, fortunatamente, (Karma, can you hear me? Sta appost! Non ti preoccupare!) ma siamo ancora qui. A ridere, a scherzarci su, ad andare avanti. A festeggiare gli 85 anni di nonno.
Non posso perciò non provare gratitudine. Non posso perciò non dire grazie a nonna che ha tenuto unita la famiglia. Che spesso è stata proprio il motivo per cui siamo rimasti uniti e coesi. Uno squadrone della morte. Non posso non dire grazie ai miei nipoti che sono arrivati provvidenzialmente in due anni difficilissimi. Non posso non dire grazie a quel misto di educazione e genetica che ci ha reso tutti tosti tosti.
Il punto però è un altro. Che sotto sotto, se ci pensiamo, tutti stiamo sopravvivendo. A una pandemia, a una crisi economica decennale, al delirio climatico (che ci siamo cercati). E stiamo qui. A lamentarci di quello che non c’è.
Ma ci pensiamo mai a quello che invece abbiamo, che possediamo, che ci siamo sudati e guadagnati?