Giro a destra, una grande curva e poi scorgo la capitale. Mi guardo nello specchietto retrovisore improvvisamente e, quello che vedo è un sorriso. Non ci credo: sto sorridendo. Alla vista di Roma!
La memoria torna indietro a quando, 7-8 anni fa, sulla Cerella, rigorosamente rossa, me ne stavo con i lucciconi agli occhi ripetendomi di continuo che entro pochi giorni sarei tornato a casa. A casa mia. Sulle montagne. Oggi sono felice, invece, all’idea di essere quasi arrivato lì, nella città eterna.
Never say never, never say always. Mi torna in mente questo modo di dire. Che poi non sono nemmeno sicuro sia esatto, ma niente. Mi riaffiora e, assieme a lui, mi ricordo che, qualche mese fa ero già intento a riflettere su questo concetto. Arrivo a casa di mia cugina e la giornata mi assorbe, ma, nelle ventiquattr’ore successive recupero il post che era rimasto in bozza. Lo apro e lo rileggo.
Gli uccellini canticchiano negli alberi sparpagliati a Roma centro. Il traffico, leggero e quasi silenzioso fà da sfondo. Una macchina del caffè espresso emette quello strano fischio di quando il vapore è pronto per dare vita alla schiuma del cappuccino. Io sono seduto solo, a un tavolo, con un bicchiere di succo d’ananas, con l’aria fresca che mi rinvigorisce. Mi fa sentire sveglio, dopo un quattro-cinque giorni passati ad andare a dormire tardi la sera per svegliarmi la mattina.
Agli altri tavoli, anime in pena come me. Un ragazzo con cappotto color cammello fissa il vuoto mentre sorseggia il terzo caffè (l’ho visto io prenderne almeno uno ed era qui già da tempo. Mi dico che a fine giornata avrà un attacco di cuore, ma, qualche mese dopo scoprirò che per lui è la base). Poco più in là, tre ragazze perse con lo sguardo nei loro schermi. Al chiosco del bar, due donne che fanno colazione. Si conoscono, loro.
Osservando la scena mi rendo conto che io ho scelto un tavolo ad angolo. Come se avessi voluto già avere sotto controllo la scena. In realtà volevo stare un po’ in disparte e, ora, realizzo di essere quello strano. Quello che scrive con la tastiera dell’iPad bevendo qualcosa, assorto nel suo mondo. Che stereotipo! Lo scrittoruncolo che scrive in pubblico, prendendo ispirazione da quello che vede. In un bar, poi.
“Avanguardia pura”, commenterebbero in un noto film.
Il punto è uno: ero qui, seduto a bere ‘sto succo, preso solo per ingannare il tempo in attesa dell’inizio della mia prima giornata di master ufficiale, e mi sono reso conto che era successo di nuovo.
Avevo fatto quello che credevo non sarebbe mai successo. Ero tornato a scuola. Da studente!
Dieci anni. È stato questo il tempo che ho impiegato per prendere una triennale. Dieci anni. Altri hanno ottenuto una magistrale, un dottorato o, che so, si sono fatti una famiglia. Io in una decade mi sono laureato e ho lavorato. Il punto però non è giustificare il mio ritardo da treno regionale veloce Roma-Campobasso. No! Il fatto è che non lo credevo possibile.
Ricominciare a studiare? Giammai mi ero detto. Andare in una scuola privata? Ma che sei scemo? Tornare a farlo a Roma? Ma tu si tutt pazz! E invece…
Chi lo avrebbe mai detto? E soprattutto quante cose crediamo di non fare per poi scorpric…
Finisce con “scoprirc” la riflessione, l’articolo, il pensierino della sera (come-cavolo-li-definisco-sti-post?) che avevo cominciato il 6 novembre alle 9 del mattino. Sono passati due mesi e lo sento tutto quel flusso di pensieri. Coincide proprio con le sinapsi del giorno prima, quando ho visto Roma.
Chi lo avrebbe mai detto? Chi avrebbe mai detto che, alla fine, mi sarei laureato? Che avrei deciso di continuare gli studi? Che lo avrei fatto a Roma? Che mi sarebbe piaciuto vivere la realtà di Roma?
Al semaforo, sulla Tuscolana, ci continuavo a pensare. Forse rassicurarci con qualche mai ci tranquillizza. O, almeno, io è così che ho fatto. Mi sono ripetuto milioni di volte che certe cose non le avrei mai vissute. Mai fatte, mai dette, mai provate, mai sentite. Eppure…
Eccomi qua. 30 anni, una vita che ha preso una piega piacevole (ma inaspettata), un futuro incerto, come per tutti, in mezzo a una pandemia. Una pandemia. Nessuno di noi l’aveva messa in preventivo, ma ci stiamo facendo i conti. C’è chi non si aspettava una malattia, chi la perdita di un familiare, una sofferenza o, perché no, una gioia improvvisa.
E allora perché ci piace così tanto escludere delle possibilità? Perché ci piace ripetere con tanta convinzione mai?
Che poi non ne siamo proprio convinti di questo assolutismo. O no?
Pensaci, lo ripetiamo di continuo: “Mai dire mai”. Ciononostante lo facciamo, continuiamo a usare questo avverbio come sale, ma non quanto basta. No. Ne facciamo un abuso.
E così giungo a una conclusione. La nostra vita è piena di “mai”. Forse una fila di mai, alla ricerca di un per sempre di qualche tipo. E allora mi chiedo: non è che se ci facessimo ossessionare meno dal “sempre” e smettessimo di dire “mai”, vivremmo una vita migliore o comunque più serena?