Comunità: s. f. [dal lat. communĭtas-atis «comunanza», der. di communis «comune1»]. Insieme di persone che hanno comunione di vita sociale, condividono gli stessi comportamenti e interessi.
Sono le 18. Ho ancora davanti qualche ora di lavoro, ma una micropausa voglio farla. Da quando ho deciso che avrei provato a dare gli esami in qualsiasi data disponibile, sotto imposizione della mia migliore amica, praticamente non ho più momenti liberi. Tanto c’è la pandemia, continuo a ripetermi. Mentre la mia vita viene risucchiata tra strategie di marketing, articoli da scrivere e pagine da studiare, fingo di non rendermi conto che, in realtà, sono terrorizzato come tutti. Spero andrà meglio, confido che sarà così, ma, nel frattempo, mi faccio sotto. Tant’è che rimprovero mamma quando mi elenca i nuovi positivi, i morti e l’RT. Lei che ormai segue con religioso silenzio le conferenze stampa della protezione civile, ogni giorno. Io ignoro e cerco di trovare il positivo.
Come sempre. D’altra parte. Chiudo in una scatola i malumori, li metto nel fondo della mia cantina emozionale e vado avanti. Prossima e-mail, prossima task, prossimo compito.
Però sono le 18 e voglio staccare una decina di minuti. Quindi apro Instagram e scorro le stories. Una dopo l’altra, mi affaccio dai balconi di Roma, da quelli di Ancona, Bologna, Napoli. Mi scorgo dalla finestra di casa Ferragnez e vedo l’Italia che unita… canta. Canta per farsi forza, canta per esorcizzare le paure. Urla al cielo che siamo una nazione, una comunità che non si lascerà spaventare da quella sfilata di carri militari. Un immenso paese che finalmente sembra aver ritrovato un senso di unione, che combatte fianco a fianco. Non solo in prima linea, con infermieri, medici e tutto il personale sanitario. Anche nelle retroguardie. I cittadini, quasi tutti, buoni buoni se ne stanno a casa. Cucinano, sfornano pizze, mettono mano ai risparmi per la vecchiaia perché alla fine conta solo una cosa: resistere per poi rinascere. Più forti.
Sì. Facendo le dovute distinzioni, quella è una nuova resistenza che siamo chiamati a fare. Insieme, uniti. Tutti.
Così arriva l’estate e ognuno di noi prova a ritrovare un po’ di normalità. Il Covid sembra quasi un incubo lontano. La sensazione è quella del risveglio dopo una notte agitata. Un brutto ricordo, ma ci pizzichiamo per dirci “ehi, è passata. E se tornerà, saremmo pronti”.
E così, come i sogni più terribili, la seconda ondata arriva. La terza è un flagello e, da Molisano quale sono, questa volta vengo toccato da vicino. I paesi si rimpieno di casi, si infestano e la cosa peggiore è che le comunità si distruggono.
Sì. Nessun canto dai balconi, nessun “ce la faremo” o “andrà tutto bene” affisso alle finestre. No. C’è solo una caccia alle streghe. Piccoli agenti speciali dell’FBI che cercano il positivo asintomatico che ha infettato la cittadina, l’assembramento incriminato. Addirittura si fa quello che Immuni dovrebbe fare. Si ricostruiscono ipotetiche catene di contagio e dai telefoni audio gracchianti ammoniscono “Perciò, statti attento. Non andare lì. Evita tizio”.
Insomma. Siamo nel medioevo. Le streghe sono i pazienti affetti dal virus e il Covid è il maligno, che va sconfitto.
Qualcuno ci prova però a ricostruire un senso di appartenenza. Lo fanno le associazioni, lo fanno i volontari che si offrono per vaccinare la popolazione, ma non basta. Come nei più brutti e oscuri paragrafi della storia dell’inquisizione, è troppo tardi. C’è paura, paranoia.
Il pettegolezzo, la polemica. E allora i si poteva e i si doveva cominciano a comparire. Perché quello aveva interesse. Perché quello ci guadagna. Perché e chissà che fanno terra bruciata perfino intorno a coloro i quali vorrebbero solo portare la spesa a casa di chi non può uscire.
E i balconi sono un vago ricordo. Adesso, semmai, la vedetta da cui spiare chi “va in giro in zona rossa”. Perché se si vede qualcuno che cammina lo fa sicuramente in barba alla legge.
E allora no. Non va bene. Non andrà tutto bene. Se volete lo faccio io un cartello e lo affiggo al 24 di Corso Garibaldi. Prenderò i miei pennarelli e, con la mia scrittura di adulto miope, con le mie zampette di mosca scriverò a chiare lettere, cubitali che: ANDRÀ TUTTO UNA MERDA.
Sì, andrà male. Saremo alla deriva, se non ci tacciamo e ritroviamo quel senso di comunità che ci ha contraddistinti in passato. Sarà peggio se non impareremo che noi altomolisani siamo un unico essere vivente che deve imparare a trovare la forza di guardare oltre gli orticelli del proprio interesse, che deve imparare a cantare in coro sempre. Non solo quando va di moda sui social.
Andrà tutto a puttane se non riscopriremo quella voglia di affrontare tutto con la forza di ogni singolo cittadino, evitando di cavalcare battaglie inutili che come risultato hanno solo la divisione di un’area che vive nel terrore.
Andrà una merda e la causa non sarà il SARS-CoV-2. Il virus saremo noi!