Arrivo al solito bar quasi trafelato. Sono stato a cena con i miei e mia sorella. Il cameriere, un vero bullo da sala, non ci ha permesso di scegliere praticamente nulla. Ci ha rimpinzati, quasi fosse una nonna che non vede i nipoti da mesi, alla velocità della luce. Al rientro non vedevo l’ora di vedere i miei amici perciò corro ed entro nel locale. Mi guardo intorno e li trovo. Ridono, sorridono, chiacchierano. Mi sembra quasi impossibile.
Eccoci. Una matassa intricata di stress da lavoro malpagato, o pagato bene ma singhiozzi. Un gomitolo di incertezze e di dubbi: ma stiamo a fa la cosa giusta? Un groviglio a base di storie concluse, di desideri e di aspirazioni. Un insieme di vari fili annodati: brutte esperienze in ospedale, paura, voglia di affermarsi e di riprendersi la propria libertà, o affermarla. Liti in casa, in ufficio, urla e vaffanculo taciuti per il bene comune.
Eccoci. Un quadretto perfetto, la comitiva. Quella pronta ad esplodere, che però sta lì a spegnere incendi ed evitare che le fiamme tocchino la bombola di gas. Questo siamo. E lo siamo sempre stati…
“C’ho l’ansia”.
È questa una delle frasi che probabilmente ha contraddistinto noi millenial. Dall’adolescenza in poi, io, i miei amici, abbiamo continuato a ripeterlo. Forse impropriamente, qualcuno con cognizione di causa. Tutti però avevamo l’ansia.
L’ansia per le interrogazioni, l’ansia per la scelta della facoltà universitaria, per quello che sarebbe stato dal giorno dopo la cerimonia di laurea, per i colloqui, per i possibili trasferimenti. L’ansia per le relazioni che stavano nascendo, quelle che stavano finendo. Quelle perorate dai genitori, sempre più onnipresenti, quelle negate e non volute, ostacolate. L’ansia per quello che non volevamo ammettere o che avevamo paura di dire. Perfino a noi stessi.
Ansia.
Mi chiedo però se la nostra adolescenza sia stata così brutta? E la risposta arriva rapida: no!
Cioè, voglio dire: c’è stato qualche piccolo “dramma”, come succede sempre. Ma, per lo meno, non abbiamo dovuto affrontare una pandemia, un conflitto che mette a repentaglio la quotidianità appena ritrovata, il timore di beccarsi una polmonite bilaterale mentre cerchi di distrarti, con un drink in mano, in fuga da tutta quella merda che mastichi, inali e leggi ogni giorno.
In Didattica delle Lingue Moderne, ricordo di aver compreso cosa fosse il cosiddetto “Effetto Cocktail”: un insieme di rumori che fa da sottofondo alle feste e ai party e che può disturbare la comprensione di una conversazione soprattutto per i parlanti che stanno imparando una lingua straniera.
Volendo fare un paragone, perciò, l’effetto cocktail della nostra adolescenza era abbastanza silente, se non contiamo la crisi economica, che cominciava ad affacciarsi, e il tasso di disoccupazione crescente.
Oggi però quello che sentiamo di sottofondo non è solo un brusio, un vociare di persone. No. Ci sono urla disperate, esplosioni, il rumore di un respiratore, c’è una conversazione disturbata su una chiamata WhatsApp. Ci sono anche gli sguardi. Impauriti, traumatizzati, ci sono gli occhi lucidi. E c’è la rabbia.
Cazzo. Sì. C’è la rabbia. Perché è vero: la mia adolescenza sarà stata migliore di quella dei teenager di adesso, che incontro a scuola, ma permettetemi di farmi girare le palle se a trent’anni devo chiedermi se quello per cui lavoro, lotto e sudo possa essere distrutto da un’infezione virale, da un pazzo che vuole costruire un impero. Consentitemi di avere un attimo di scazzo se penso che, nel 2022, esistano ancora persone con diritti di serie A e diritti di serie B. Che esista ancora la discriminazione, che esistano profughi per i quali siamo pronti a non frequentare le nostre case in campagna, pur di fare accoglienza, e altri che guardiamo con disprezzo. Fatemi pure avere cinque minuti di ira, se penso che siamo una delle generazioni che potenzialmente avrebbe potuto avere di più ma che, invece, sta ottenendo meno. E non per colpa nostra.
Perciò sì. C’abbiamo l’ansia, lo scazzo, il nervosismo e pure un po’ di esaurimento. Ma, no, non vedo rassegnazione. Prima o poi quello che ci spetta ce lo pigliamo, ragà. Per forza!
Ti leggo ogni volta e ammiro il fatto che riesci a portarmi dentro il racconto come se stessi vivendo quello che sto leggendo!
Complimenti!!
Ciao Dora!
Ti ringrazio innanzitutto per avermi letto e per continuare a farlo. Sono onorato!
Non potevi lasciarmi commento migliore. Credo che creare empatia con il lettore sia possibile e ci provo. Se poi mi dici che ci riesco… beh, mi rendi felice. GRAZIE!
Sei riuscito a farmela sentire tutta quest’ansia, sei proprio bravo, usi la penna come un pennello e rendi benissimo tutti i colori delle tue emozioni, sfumature comprese: solo che si è aggiunta alla mia! Mo’ ch’ema fa’?
Mi era sfuggito il commento! Scusaaaaaa…
Mo che torni ci sediamo, mi racconti l’ansia tua e ci scrivo sopra. Che ne dici?