Quando ho aperto partita IVA, una delle prime cose che ho dovuto far capire ai miei genitori è che io volevo lavorare da casa. Sì. A me un ufficio non serviva e non sentivo affatto il bisogno di lasciare il soggiorno per dover salire in macchina, aprire le imposte di un locale commerciale, accendere le luci e il computer. Quello che facevo in quel costoso ufficio potevo farlo tranquillamente dal divano, accanto al camino o, perché no, altrove. In giro per l’Italia.
C’è voluto un po’ di tempo prima che potessi capire che non ero l’unico a voler fare il nomade anche se, come dicevamo scherzando io e la mia ex-socia, noi eravamo più accampati che nomadi. Sì. Ci buttavamo dappertutto per discutere una strategia, o parlare delle esigenze di un cliente. Un bar, i sedili della 500 di mia nonna – che era diventata ufficialmente la mia autocivetta, il soggiorno di casa mia o di casa di Gessica. Perfino un freddissimo e ventilatissimo bar a Stazione Tiburtina, a Roma.
Continuavamo a ripetere che il Nove1Studio (questo era il nome del progetto al quale avevamo dato vita) fosse “ovunque e in ogni dove”. Ed era vero. Una benedizione per chi, come me, voleva e vuole viaggiare.
Poi, però, le cose sono cambiate. Il lavoro è aumentato e mi sono concesso meno trasferte fino ad arrivare allo scorso marzo quando, beh, smuoversi è diventato legalmente impossibile.
Il mio iPad squilla. FaceTime in arrivo. Siamo tutti chiusi in casa e beh è così che ci vediamo. Così che fingiamo di essere al bar. Solo che al posto del Campari o dello Spritz servito al tavolo dobbiamo farcelo noi. E berlo senza stuzzichini in ciotoline fighe.
– Quindi? Come va? – chiedo ai miei amici.
– Mamma mia, Gio. Ma tu come cavolo fai a stare sempre a casa? Come fai a lavorare così?
– Beh… diciamo che in genere non è così. In genere io lavoro da casa, ma vivo fuori casa. Voglio dire: siamo prigionieri ora. È diverso! – spiego.
– Sì, ma tu ci sei abituato…
Col cazzo, penso. Non è che sono agorafobico e che vivo chiuso tra le quattro mura di casa dei miei, a Corso Garibaldi. Io prima avevo una vita, esattamente come te. Andavo in palestra due volte a settimana, uscivo i week-end e passavo le domeniche da mia nonna. L’unica differenza tra me e te è che io non perdo tre ore nel traffico di una metropoli. Io quelle tre ore le lavoro o, nella migliore delle ipotesi, le dedico ad altro.
A ogni modo, respiro. Cerco di bypassare la parte in cui mi hanno detto di essere una specie di sfigato recluso e dico: “Oddio. È tosta anche per me. Praticamente ora non esco se non per fare una passeggiata con i cani!”
La conversazione prosegue con il copione che tutti conosciamo: speriamo che passi. Chissà se sta curva scende ad agosto e così via…
I mesi volano. La curva si appiattisce, ad agosto facciamo tutto quello che vogliamo, le mascherine diventano delle specie di collanine per i nostri menti. Beviamo in piazze affollate, facciamo tutto quello che non si poteva e dimentichiamo i karaoke sul balcone. Non ce n’è coviddi. A settembre però il conto arriva. Ed è salato.
I numeri aumentano di giorno in giorno, la situazione peggiora. Si parla ancora di restrizioni. Le palestre richiudono, poi le aziende che avevano riaperto le porte ai propri team dicono loro di rimanere ancora a casa. Le scuole riscoprono la DAD – ma, questa volta, sembra andare un pochettino meglio, le università, addirittura, arrivano a capire che la didattica online consentirà loro di recuperare altri potenziali alunni, altrimenti destinati a università totalmente online (wow, ce l’abbiamo fatta a comprenderlo!). Insomma: è un marzo 2.0, in un certo senso. Qualcosa cambia però: questa volta le regioni hanno dei colori e tutti sappiamo già a cosa andremo incontro, se, malauguratamente finiamo in zona rossa. Perdipiù siamo stanchi, sfibrati, sfiduciati, incazzati neri…
In qualche modo ce la caviamo e finiamo ai tempi del calendario post-avvento, quello dei giorni colorati. Del puoi fare visita ai parenti con l’autocertificazione, un po’ di anarchia burocratizzata che, però, mi da modo di fare una passeggiata con qualche amico che non vedevo da tempo.
– Mamma mia. Sai qual è la cosa che mi manca di più?
– La palestra? – chiedo.
– No.
– Le cene con gli amici?
– No!
– Andare a ballare? – azzardo.
– No!
– Basta mi arrendo. Qua alle 10 devo tornare a casa.
– Andare in ufficio…
– Non ci credo. Ma che cazz…- commento stupito.
– Sì. Perché a casa c’è confusione, mi distraggo, non riesco, sto scomodo… E poi a casa non parli con i colleghi. Ci chatti solo. E poi non capisco che ci trovi di bello!
È qui, in questo momento, che mi crolla un mito. Che capisco che, l’esperienza del Covid non ha portato alcun cambiamento in certe aziende, ma che soprattutto, non è stata in grado di insegnare niente ad alcuni coetanei. Che si lamentano di bruciare ore e ore in giro sui mezzi pubblici, ma non riescono a capire che quel modello fatto di pendolarismo urbano non è più attuale e che, soprattutto, rischia di mettere in crisi la loro vita. Insomma: siete sicuri di voler tornare in ufficio?
We’re not just working from home, after all. We’re working from home during a pandemic.
Al momento non stiamo solo lavorando da casa. Stiamo lavorando da casa durante una pandemia. Questo è un estratto dell’articolo che ho linkato qui sopra. L’autore, un contributor del New York Times, infatti, si concentra proprio su questo aspetto, ricordandoci che non è il modello lavorativo ad aver dato a qualcuno delle noie. Il problema è stato testare l’home-working in un momento in cui tutto era in crisi, le connessioni cadevano di continuo e i bambini facevano lezione senza nemmeno indossare un paio di auricolari.
Insomma: abbiamo dovuto digitalizzarci, scoprendo tutta una gamma di software dal lunedì al mercoledì successivo, facendo goffissimi tentativi che alla fine ci hanno fatto odiare il mezzo.
Quello che mi fa rabbia è che in realtà stiamo sottovalutando la bellezza, i benefit dell’home-working. La possibilità di farci un the in cucina tra una call e l’altra, di cucinare mentre aspettiamo che un software elabori dei dati, di uscire a fare una passeggiata se abbiamo l’agenda sgombra. Quello che mi fa incazzare è che siamo riusciti ad adattarci al car-sharing, ma non vogliamo capire che il lavoro sta cambiando e che non può muoversi ancora nelle logiche orarie. Che se fossimo più concentrati sul portare a termine le nostre task (o compiti), faremo di più in meno tempo. Quello che mi fa avvelenare è che ci sembrano fighi i coworking, ma non abbiamo colto la bellezza di lavorare nella nostra postazione domestica, evitando il caffè della macchinetta a gettoni per riscoprire che la moca della casa in campagna è favoloso. Quello che mi fa delude è che mio nonno, classe 1936, concorda con me (lavorare da casa è una fortuna), ma i miei amici, anno di nascita 1991, continuano a preferire lo status-quo del giacca e cravatta pur rinunciando a qualcosa di sacrosanto: la serenità.
Disclaimer: Sono ben conscio che non tutti i lavori e le professioni possano essere svolte tranquillamente da casa. La riflessione di cui sopra è rivolta a tutte quelle persone che, come me, potrebbero portare a termine il loro lavoro con la stessa efficacia, qualunque sia la sede, o il posto, in cui si trovino.
.la tiri alla lunga per dire che da tempo lavori da casa, E Ti piace moltissimo,mio figlio Giulio,47 anni un esperto in cybersecurity,lavorando a ,milano(esperto di reti,il suo primo lavoro)Praga(comincia la sicurezza informatica come ruolo),poi a dublino,poi a copenaghen,poi a ginevra,poi a roma,poi di ritorno a Praga ,è li ormai da 13 anni,con 4 figli e moglie.Ci lavora *veramente*da casa da diversi anni.Non è salutare,per Te lo è perchè vivi una realtà in cui tu,sei il *principe*,in casa e nella little town,in cui abiti,attorniata dalla buona aria e dal verde e dal…buonissimo cibo! Mio figlio vive in un attico molto ampio a Praga,ma le difficoltà dello smartworking sono letali alla sua salute. Alto 198,peso non ti dico, seduto in una sedia ergonomica da 3000 euro, per circa 8/10 ore giorno,Chiuso in una stanza dove fuori c’è vita famigliare 4 bambini..,io contrarissimo a questo tipo di sistema di lavoro anche se il sociologo De Mari lo butta alle stelle,forse avendo fatto io uno dei più bei mestieri del mondo,direttore di un grande magazzino,dove dall’apertura alla chiusura era una vivace vita che viveva il luogo di lavoro. Vabbè..non dilunghiamo
un saluto ed un abbraccio
Ciao Biagio!
Sì, volendo sintetizzare estremamente è così: lavoro da tempo da casa e sono felice così. Non è stato sempre semplice e sempre piacevole. Non ho letto lo studio del sociologo che citi tu però ho consultato lo studio del PoliMi che, già da qualche anno, evidenziava gli aspetti positivi del lavoro da casa. Statisticamente aumenta la produttività e la soddisfazione. D’altra parte i numeri dicono che molto spesso si sono anche verificati casi di stress, burnout e conseguenze varie. Il punto però è che spesso facciamo differenza tra “Home-working” e “Smart-working” (ho trovato un articolo a tema, qui).
Come scrivono gli esperti di questa grande società il problema non è il luogo di lavoro, ma il modello che viene impostato, poco orientato agli obiettivi.
Per tuo figlio, sicuramente non posso capirlo (non avendo moglie e figli), ma in base alla mia esperienza non tornerei mai indietro. Un domani chissà, vedremo!
non devi tornare indietro..mai,resta così se la Tua vita la vivi bene che continui il tuo lavoro da Agnone,sono molti anni che manco da Agnone,ho una casa lì a san pietro,tutta abitabile con luce acqua e gas funzionanti, arredata dico sempre che farò un salto , ma per un motivo od un altro abbiamo sempre rimandato io e mia moglie.Ce ne vorremmo liberare, o fittarla a canone **bassissimo** pur di tenerla in piedi ci costa un sacco mantenerla con bollette e tasse,ma la mia mira resta quella che qualcuno dal nord scelga il *paesino* per lavorare in lontananza in santa pace,ma tutti ne parlano,ma nulla succede. Poi guardiamo la reltà dei fatti,Agnone come la raggiungi? Che servizi offre? Non c’è nemmeno un punto di pronto soccorso, la fibra è arrivata? E tante altre domande a cui non c’è risposta positiva.Seguo con molta simpatia la trattoria *la panonda* dal giorno della sua apertura,sono dei giovani coraggiosi,e li ammiro. C’è un amico lche segue le vicissitudini della casa a cui ho dato le chiavi,Raffaele Orlando,una brava persona,che mi apre e chiude per vedere come va. Leggo i tuoi articoli su linkedin,e la tua vita mi stà molto a cuore,come tutta la Tua bella famiglia. Un abbraccio fortissimo,sperando nella mia idea..che qualcuno arriverà a lavorar da lontano fissandosi ad Agnone….qualche tuo collega ..lontano? Mah Kissà
ciao
io l’altro giorno mi sono alzato alle 5. vestito, preso ciaspole, tea caldo e zaino. alle 7 ero su un punto panoramico fantastico dopo un’ora di salita. ammirata l’alba. alle 9 ero alla mia scrivania. figo. venite a vivere e lavorare ad Agnone…
Ciao Mario!
Immagino che quell’inizio giornata ti ha portato molte più energie di quante ne avresti avute, dormendo un’oretta in più. Siamo fortunati a vivere, qui, questo è certo. Il fatto è, però, che adesso questa occasione ce l’hanno un po’ tutti, come ho scritto altrove.