È mezzogiorno. Le macchine scorrono fluide su Via Ostiense, qualcuno cammina sul selciato. Quel qualcuno sono io e sono diretto alla facoltà di Legge, provenendo da quella di Lettere e Filosofia. Sto andando a pranzo, da lei, la mia migliore amica (e no, non gongolare se leggi questo pezzo: questa storia non riguarda te!).
Attraverso la strada, entro nel giardino e osservo gli studenti con i loro codici, gli adesivi sulle pagine. Piccoli Buddha che ripetono cose in un italiano che non è italiano. “Sfigati” penso io, mentre nello zaino ho una lavagnetta magnetica (sì una lavagnetta!) per esercitarmi a fare gli ideogrammi di cinese. Varco la soglia e la vedo, andiamo a pranzo al 45 giri. Una giornata comune, una giornata come le altre, una giornata come poche…
Passa il tempo, i giorni volano, il primo anno finisce, arriviamo al secondo. Un trasloco, nuovo quartiere, nuovi amici, casa nuova, nuove paure. Qualcosa, o meglio qualcuno, mi fa “buh” allo specchio in una grigia mattina piovosa di ottobre e, nel bel mezzo della lezione di Filologia Germanica io, che nel frattempo ho già mollato cinese e sono passato a spagnolo, mi alzo e vado via.
Una fuga. Dalla lezione, prima, da Roma, poi, e gradualmente dall’università che ho cominciato a trattare con fare disfunzionale: sapevo di volerla e doverla terminare, ma non era una mia priorità. Un continuo ping pong tra senso di responsabilità e ricerca di stimoli. Insomma un rimandare costante.
Ecco. Da qui le chiavi di lettura possono essere due: potrei andare lentamente e affrontare una narrazione lunghissima e dettagliata oppure portare avanti le lancette. Naturalmente, adotterò la seconda.
Tredici anni dopo.
Via Ostiense è semivuota – dopotutto l’indomani è il 25 aprile. Questa volta sono quasi le dieci e il cielo è nuvoloso. La Basilica di San Paolo è bianca e svetta alta. Parcheggio in Via delle Sette Chiese e mi lascio la macchina alle spalle. Svolto verso destra alla ricerca della Segreteria Studenti, che è chiusa. “Ma come? Ho un appuntamento” mi dico. Poi mi metto a cercare su internet e credo di capire: l’hanno spostata e mo tocca capire dove.
Come nel 2010, cammino a falcate larghe nel giardino di Giurisprudenza e seguo quei pochi studenti che entrano. Non mi sento osservato, non mi sento fuori posto e questo è strano. Sono a casa nonostante di fatto non sia più uno studente. Chiedo lumi ai ragazzi dell’infopoint, esco dalla porta laterale proseguo su via Ostiense fino all’ex Croce Rossa.
L’edificio della Segreteria Studenti mi ricorda un lager (non chiedermi perché), ma mi fa pensare a un qualcosa di sinistro volutamente travestito. Apro la porta, dichiaro il mio nome e mi fanno accomodare in un ufficio dove, finalmente, dopo due anni dal conseguimento mi consegnano la mia laurea.
Il tutto succede così rapidamente che in un attimo sono fuori con una confezione di cartone bordeaux in mano. Io, la mia felpa viola, gli occhiali da sole e la mia laurea. È vero. Ce l’ho.
Mi assale una voglia e decido di seguire l’istinto. Non so perché ma mi affretto e dal civico 129 torno al 234, facoltà di Lettere e Filosofia. Io, la mia felpa viola e il mio porta laurea magenta entriamo dall’ingresso principale.
Incontro pochi studenti davanti alla porta, i corridoi sono semivuoti. Inspiro forte e mi guardo intorno. Nessuno che riconosca (beh, direi! I miei coetanei stanno a casa a preparà la pappetta ai figli!), ma non mancano all’appello solo le persone con cui ho dato inizio a questo elefantiaco percorso. No. Non c’è nemmeno l’ansia e l’angoscia che hanno contraddistinto le passeggiate negli ampi corridoi dell’ex-Alfa Romeo di Roma.
Forte di questa consapevolezza, quindi, continuo il tour nei ricordi. Passo in rassegna tutte le aule che mi hanno dato il tormento: la 10, la 11, la 2. Siete voi, bastarde, che mi avete visto mentre sudavo con il compito di linguistica in mano. Le vostre mura maledette mi hanno stretto quando aspettavo in fila che qualcuno, scocciato, chiamasse “Giaccio” alla cattedra per esaminarmi. Sono quelle fottute porte bianche che abbiamo aperto, tutti, per liberarci di un ulteriore peso, con un libretto carico di altri CFU.
Non c’è più niente. I corridoi sono vuoti, la mente è sgombra, la pancia non è appesantita. Non ho mal di testa, non ho paura. Non mi sento colpevole. Non c’è più nulla. Anzi c’è la serenità per aver concluso un qualcosa che era diventato una sfida dolorosa e tossica. C’è il perdono per aver preferito altro allo studio. C’è la redenzione per essersi riconosciuti dei limiti e aver visto molto altro.
Sfilo. Tra i corridoi e infine nel cortile. Come avrei voluto fare fin dal primo giorno. Non ci sono i miei amici, la mia famiglia. Non indosso un completo (dopotutto mi sono laureato in pandemia, in camera da letto!). Non è come volevo, ma mi sta restituendo esattamente la stessa soddisfazione che mi aspettavo. E alla quale aspiravo.
Mi scatto un selfie, sorrido. È spontaneo. Sono libero.