Ringrazia il corpo e la mente

Ringrazia te stesso

Mia madre urla per le scale. Richiama al volo mia sorella, prima che lei possa uscire di casa: ha bisogno di una mano per girare il materasso. Io sistemo la camera, metto in ordine e mentre Paradiso canta, alla radio ovviamente, Questa nostra stupida canzone d’amore,  cerco di fare pace col cervello. Metto in fila i pensieri.

Siamo dei sopravvissuti. Tutti. E non solo per il 2020 che abbiamo messo in un cassetto. Ammettiamolo: avremmo commesso degli errori, ma sfido chiunque a essere una persona perfetta, quando c’è morte, disperazione, depressione, tristezza e crisi economica ovunque. Già, ovunque. Non sono uno psicologo, ma credo di poter dire che gli ultimi trecentosessantasei giorni siano stati una cornucopia di situazioni alquanto singolari. E, mi auguro, irripetibili. 

Il punto, però, è che già prima della pandemia, meritavamo il titolo di sopravvissuti. Penso a chi ha perso un genitore, magari da piccolo, ed è riuscito a crescere grazie agli sforzi dell’altro, che ha praticamente rinunciato a tutto, pur di donare il meglio ai figli. Perché i figli meritavano il meglio. 

Penso a mia nonna che ha perso progressivamente l’uso delle gambe per poi finire a camminare, più o meno, con l’aiuto di un deambulatore. Lei, la donna che si cappottò con la macchina, riuscì ad uscire dal finestrino e quasi negò l’aiuto dei paramedici perché “mi sta per arrivare il frigorifero nuovo”.

Penso a mia madre che, dopo anni di precariato ha ottenuto il posto che tanto ha aspettato, ponendo fine a una serie di giornate al telefono tra colleghe, a domandarsi “Sai se oggi chiamano a Isernia? O stanno per convocare le supplenti a Carovilli?”

Penso a chi ha perso il lavoro e si preoccupa di come farà quando, tra qualche mese, avrà finito la NASPI, che poi è il modo figo per chiamare il sussidio di disoccupazione. 

Penso a chi ha avuto il coraggio di lasciarlo il lavoro. Di credere nelle proprie idee e magari ritrovarsi con un pugno di mosche in mano, qualche debito e, sì, nemmeno un posto in cui tornare.

Penso a chi, nonostante tutto, continua a credere in ciò che lo tiene sveglio la notte e lo aiuta a sorridere al mattino.

Penso a tutte quelle persone che vivono, pur sapendo di non avere il benestare dei propri cari e, comunque vada, potrebbero non sentire mai le parole “Siamo orgogliosi di te” perché quella frase dovrebbe essere seguita da un’avversativa, un ma così tagliente da far male, da bruciare le orecchie e spaccarti il cuore. 

Penso a tutti noi. Perché tutti noi siamo almeno una di queste persone o, forse, un concentrato di più d’una e mi dico: tutto sommato ce la stiamo cavando, Tiriamo avanti. E allora, mi chiedo, perché non siamo noi a dirci che siamo orgogliosi? Perché non smettiamo di chiederci sempre qualcosa in più, senza almeno dirci un bel “Bravo!” e darci una bella pacca sulla schiena?

Perché sì, va bene migliorarsi, ma anche riconoscere che non siamo poi così pessimi… non ci farebbe certo male. 

E allora sì, come dice l’insegnante di Yoga, del corso che sto seguendo, forse dovremmo iniziare a “Ringraziare il corpo e la mente”. Per avere tenuto duro, per continuare a farlo, per sfidarci ancora, per averci assecondato quando ci dicevamo che era solo l’ultimo sforzo (pur sapendo che poi ne avremmo chiesto un altro). Per aver fatto in modo che sopravvivessimo ai giorni più bui, ai dolori più forti, alle sofferenze più atroci.

Ringrazia il corpo e la mente. Riparti da lì. Dalla gratitudine. È quel sorriso dolce che ti aiuterà ad andare avanti e, sì, anche a raggiungere il prossimo pallino della tua lista di cose da fare. Ringrazia gli altri, ma soprattutto te stesso. Perché, ammettiamolo: questo è quello che dimentichi più frequentemente. 

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